Il vedere di una non vedente
L'intervista a Elisabetta Corradin, coordinatrice delle guide di Dialogo nel Buio, apparsa su Wall Street International Magazine
Mi chiamo Elisabetta, ho quarantuno anni e vivo a Busto Arsizio insieme a mia madre; da quasi tredici anni lavoro a Milano e quindi conduco la dura vita da pendolare. I miei passatempi preferiti sono il canto e la lettura. Ah, stavo tralasciando un particolare: sono cieca. Certo, non è un dettaglio di poco conto, ma non a caso non l'ho scritto all'inizio: non perché mi vergogni, anzi... Ma perché considero questo deficit come una delle mie tante caratteristiche e non come la mia identità.
A noi disabili visivi non crea problemi essere chiamati "ciechi" piuttosto che "non vedenti", perché la sostanza non cambia; ciò che ci dà un po' di fastidio è sentirci considerati come una categoria omogenea: "come fate voi ciechi a...?", "Ma è vero che i ciechi...?". Ognuno di noi, prima di essere cieco (o sordo, o asiatico, o musulmano) è una persona e, in quanto tale, un essere unico e irripetibile.
Credo che lo stesso valga per l’essere uomo o donna: quando più o meno ironicamente si dice "voi donne (o voi uomini) siete fatti così", si corre il rischio di cadere in facili generalizzazioni. È vero tuttavia che il nascere uomo o donna comporti il possedere una sorta di corredo genetico speciale che ci caratterizzerà, un patrimonio che però ciascun individuo svilupperà nel corso della vita, dove andrà a intrecciarsi con altri fattori quali il carattere, il contesto socio-culturale, i valori personali, ecc.
Ma torniamo a me: ritengo di aver vissuto un'infanzia "normale" e serena, tra scuola, giochi in oratorio, corse in bicicletta e sui pattini in cortile. Magari qualcuno starà pensando che, se facevo tutto questo, forse da piccola vedevo e la cecità è subentrata più tardi. Niente affatto: sono affetta fin dalla nascita da una malformazione agli occhi che mi consente di percepire solo luci, ombre e colori, ovvero una visione estremamente sfocata e imprecisa.
E non ti capitava mai di cadere o farti male?
Certo che mi capitava, ma dopo essere stata disinfettata e magari un po' coccolata dalla mamma ero pronta a ripartire. Credo che una delle qualità tipicamente femminili sia proprio la capacità di rialzarsi dalle cadute, piccole e grandi, della vita. A volte i miei piccoli amici adattavano i giochi affinché potessi partecipare anch'io, ma se ciò non accadeva non era un problema: li osservavo (si può dire “osservare” anche se non lo si fa con gli occhi) oppure mi appartavo e trovavo altri modi, anche solitari, per divertirmi. Ecco un'altra specialità delle donne, in particolare delle madri: sapersi fare da parte al momento giusto, saper attendere pazientemente, per poi rientrare in campo senza rancori per “riprendere il gioco”.
Poi diventando più grande ...
Più introspettiva è stata invece la mia adolescenza, quando ho iniziato a divenire più consapevole della diversità e a soffrire per il fatto che, mentre i miei coetanei iniziavano la loro corsa verso l'indipendenza, io procedevo a piccoli passi scontrandomi con tanti ostacoli, soprattutto psicologici. Determinante è stato poi l'incontro, presso l'Unione Ciechi, con alcuni coetanei non vedenti, che hanno rappresentato per me uno stimolo a una maggiore autonomia: "Se loro riescono, perché io no?". E così anch'io ho iniziato il mio percorso verso l'indipendenza e soprattutto verso l'accettazione della diversità, vissuta ora come ricchezza e non necessariamente come sfortuna.
La diversità: ostacolo o opportunità?
Anche l'essere donna è per me una diversità da intendersi come ricchezza: io credo fermamente nella parità di diritti e di dignità tra i generi, ma non nella negazione dell'identità; uomini e donne sono portatori di qualità speciali e complementari: unica è ad esempio la capacità femminile di gestire contemporaneamente tanti problemi, così come uniche sono la sensibilità, la delicatezza e anche la forza d'animo della donna. Non a caso la natura le ha assegnato il ruolo insostituibile di madre e la società affida spesso a lei il compito di accudire le persone più fragili (bambini, anziani e malati), pur senza dimenticare i tanti esempi di padri coraggiosi che hanno saputo sostituirsi egregiamente alle loro compagne (assenti o inadeguate) nella crescita dei figli. Ho già scritto che mi piace cantare: ci sono cori maschili e femminili di eccezionale bellezza (la bellezza non è un’esclusiva della vista), ma solo quando le voci si uniscono nasce quell'armonia, quella pienezza che trasmette una sensazione di piacere indescrivibile; analogamente uomini e donne, padri e madri, rendono l'umanità più bella solo se, senza rinnegare la propria specificità, si integrano e si completano.
Come hai scoperto Milano?
Dopo il liceo psico-pedagogico ho deciso di proseguire gli studi presso la facoltà di Scienze della formazione dell'Università Cattolica di Milano... Milano: per me ragazzina simbolo del mondo adulto, serio, un orizzonte lontano, troppo grande ma al contempo affascinante. Ricordo i primi viaggi in treno, inizialmente con le amiche e poi da sola, lanciata verso la conquista dell'autonomia. A proposito di autonomia: proprio lungo le strade trafficate di Milano ho svolto il corso di orientamento e mobilità, forse l'unico corso che ha davvero cambiato la mia vita. Con la guida esperta di un abile istruttore ho imparato a vincere le mie paure, a orientarmi, a chiedere aiuto quando necessario; ma soprattutto ho imparato a considerare il mio bastone bianco non più come un motivo di vergogna, bensì di orgoglio: sì, sono non vedente, ma grazie a questo ausilio (e soprattutto alla mia forza di volontà) io posso camminare spedita sui marciapiedi, prendere i mezzi pubblici, confondermi tra la gente: ora Milano era diventata un po’ più mia!
Milano: spazio di libertà e di fiducia, quella che i miei genitori mi hanno concesso per lasciarmi andare verso il mio futuro. Ricordo la trepidazione di mia mamma che aspettava uno squillo quando fossi arrivata a destinazione, sopportando con pazienza ore di ansia e preoccupazione, normali e necessarie se non voleva impedirmi di crescere. E mio padre, fino a quando la malattia non glielo ha impedito, mi ha sempre accompagnata fino alla stazione di Busto Arsizio per prendere il treno, ma da lì in poi lasciava fiducioso che io proseguissi da sola, certa che al mio rientro lo avrei ritrovato lì sul binario ad attendermi per ricondurmi a casa, anche se dista poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria. Proprio come quando poche settimane fa se ne è andato per sempre, lasciandomi proseguire da sola il mio cammino; ma, ne sono certa, lui continuerà ad accompagnarmi e mi aspetterà da un'altra parte, in un giorno spero non troppo vicino, per riabbracciarmi e accompagnarmi verso una nuova Casa, questa volta più lontana.
Chiedo scusa per questa parentesi intima che comunque, a proposito di uomini e donne, dimostra che, se è vero che dietro a ogni uomo c’è sempre una grande donna, è altrettanto vero che per realizzarci come donne abbiamo bisogno anche della presenza di un buon padre. Dicevo di Milano, sempre più mia: ai miei occhi appare sfocata, ma ne sento chiaramente i suoni, il movimento, gli odori, ma soprattutto le voci: un vociare continuo, fatto di conversazioni frivole o impegnate, rilassate o tese, di risate e sfoghi di rabbia e frustrazione; un vociare che nel corso degli anni si è fatto sempre più multiculturale. Ma anche suoni: motori, clacson, lo sferragliare dei tram e dei treni della metropolitana. E poi gli odori: quelli gradevoli che escono dai bar e dai negozi, quelli meno piacevoli che si respirano sulle strade super trafficate o sui vagoni affollati della metro nelle ore di punta. Questa è per me Milano, vivace città del lavoro che, quando si ferma, ad esempio alla domenica mattina o nei mesi estivi, diventa quasi surreale; oppure cambia ritmo, come al sabato pomeriggio, quando le voci sono più rilassate e i passi meno frenetici, tranne quelli dei bimbi che corrono davanti ai genitori, non per timbrare il cartellino, ma per gustare la libertà e il divertimento di un giorno senza scuola.
Milano è una città amica?
Milano che, anche se con una certa lentezza (strana per questa città così dinamica), sta diventando sempre più amica delle persone con disabilità: qualche barriera architettonica in meno, qualche bus o treno "parlante" in più (che poi servono anche a chi vede… ) e, anche se purtroppo non mancano esempi di insensibilità e indifferenza, tante persone disponibili ad aiutare e desiderose di conoscere il "diverso". Per diventare veramente indipendenti non basta l'autonomia negli spostamenti, serve anche un lavoro. Gli anni più frustranti della mia vita sono stati quelli in cui ho condiviso con tanti altri giovani della mia generazione la difficoltà di trovare un impiego, per me accentuata dai limiti imposti dalla disabilità, sia quelli oggettivi sia quelli derivanti dai tanti pregiudizi purtroppo ancora presenti. A proposito: ben vengano le leggi sul collocamento obbligatorio e le quote rosa per favorire l’integrazione di disabili e donne, ma il mio sogno (forse utopia?) è che non servano obblighi normativi per garantire pari opportunità a ciascuno, riconoscendo il valore che ogni individuo porta in sé.
Un desiderio forse non impossibile, come dimostra il responsabile della cooperativa sociale che, dopo tre anni dalla mia laurea in Scienze dell’educazione, mi ha fatto uno dei più bei regali, ovvero l’opportunità di concretizzare per tre anni il sogno che coltivavo fin da piccola, quello di lavorare con i bambini; sogno che avevo già in parte realizzato collaborando come catechista in parrocchia ma che ora diventava finalmente un vero e proprio lavoro, presso un servizio di doposcuola dove assistevo con altre educatrici i bimbi delle elementari nello svolgimento dei compiti e nello studio. Un'esperienza unica per me, che ho ricevuto tanto da quei piccoli curiosi e spontanei, e spero anche per loro, affascinati da una "maestra” un po' speciale, che prendeva appunti con una strana macchina mentre leggevano i loro testi e poi li rileggeva con le dita per interrogarli e aiutarli a capire; ma che soprattutto, facendo semplicemente il suo lavoro, forse ha insegnato il rispetto della diversità più di qualsiasi libro.
Milano è anche l'Istituto dei Ciechi ...
Ma è ancora una volta a Milano che è avvenuta la svolta nella mia vita professionale, grazie all’incontro con l'Istituto dei Ciechi di Milano, una realtà il cui profondo legame con Milano è già scritto nel nome: sono stati dei benefattori milanesi ad averlo voluto e sostenuto a metà Ottocento. Da allora ha accolto tantissimi ragazzi non vedenti di Milano e non solo, per offrire dapprima un'alternativa alla vita da mendicanti a cui erano allora costretti, poi una vera e propria istruzione, soprattutto dopo l'invenzione e la diffusione anche in Italia del codice Braille, l'alfabeto fatto di puntini in rilievo che ci ha donato il piacere della lettura vera e soprattutto la possibilità di raggiungere i più alti livelli di istruzione. Un codice che, tra l'altro, attualmente ho la fortuna di insegnare agli allievi dei corsi per centralinisti telefonici organizzati proprio dall'Istituto. Dopo la chiusura delle scuole speciali per ciechi negli anni Settanta, infatti, l'ente continua a promuoverne l'integrazione attraverso servizi di consulenza e formazione, rivolti anche a chi si trova ad affrontare la perdita della vista in età adulta.
E, dal 2005, dopo essere stati destinatari di tante attenzioni, i non vedenti hanno finalmente avuto la possibilità di offrire qualcosa di unico alla cittadinanza, grazie alla mostra Dialogo nel Buio, percorso nella completa oscurità in cui guidano i vedenti alla scoperta di ambienti di vita quotidiana da "vedere" con altri occhi, ma soprattutto dei propri sensi spesso sottoutilizzati a favore della vista, dell’essenza che si nasconde dietro all’apparenza delle immagini, del piacere di affidarsi e di fidarsi, anzitutto di se stessi; si tratta di un dialogo che libera dai pregiudizi, dove il non vedente diventa "mediatore culturale" tra due mondi solo in apparenza distanti, per far capire che i ciechi sono innanzitutto persone e per dimostrare, anche offrendo le proprie testimonianze di vita, che nessun ostacolo è insuperabile, che non esiste buio che non si possa illuminare, che, come recita un nostro motto, "se c'è dialogo non c'è buio".
Dialogo propone esperienze al buio rivolte a varie tipologie di visitatori (oltre al percorso, anche bar, cene, degustazioni, teatro, workshop per team aziendali, ecc.), ma la fetta più consistente di pubblico è rappresentata dai ragazzi delle scuole: ecco un altro modo con cui sto continuando a realizzare il mio sogno di lavorare con i più piccoli. Sono passati tredici anni dal mio ingresso a Dialogo, dove oggi mi occupo di coordinamento e formazione delle guide; ma le esperienze che ancora oggi mi regalano le più grandi soddisfazioni sono proprio i percorsi e i laboratori con i ragazzi, il terreno da cui occorre partire per sensibilizzare la società di oggi e di domani.
Domani... Non so come proseguirà il mio cammino, se diventerò moglie e madre (finora non ho avuto molto successo in campo sentimentale), non so se si apriranno nuovi sbocchi lavorativi. Qualunque destino mi riserverà il futuro, ciò che desidero è di poter essere una donna che, nel suo piccolo, riesca a rendere un po' più bello il mondo intorno a sé, anche solo col proprio umile esempio; o, forse, semplicemente, con un sorriso.
di Luisa Mariani
Articolo apparso su Wall Street International Magazine